Le origini

Sono diverse le supposizioni circa l’origine del kamishibai [kami = carta; shibai = dramma, gioco, teatro]. Una lo riconduce più o meno direttamente alla tradizione dell’emakimono, risalente al IX secolo e nata nel contesto della cultura buddista, configurata come un’unione tra immagini dipinte o stampate e testo, organizzate in forma narrativa su un rotolo. I rotoli, fatti di carta o seta, erano attaccati sul lato sinistro a bacchette di legno di modo da poter essere arrotolati e conservati. Una volta arrotolati, tali oggetti venivano legati con una cordicella di seta intrecciata e poi coperti con altra seta. Così sistemati, i rotoli potevano essere trasportati, riposti sugli scaffali o conservati in raffinati involucri dipinti e potevano raggiungere anche i 12 metri di lunghezza. lunghezza. Costituendo uno strumento di diffusione della dottrina buddista gli emakimono erano veicolati da sacerdoti itineranti e suore (Kaminishi). Ma forse la forma più diretta e plausibile di precedente la si deve individuare negli spettacoli di lanterna magica, molto diffusi in Giappone dal XVIII secolo (Utsushi-e).

La studiosa statunitense Tara Mc Gowan sostiene la tesi che difficilmente il kamishibai si sarebbe sviluppato nella forma che conosciamo senza la combinazione di diversi media sia all’interno che all’esterno del Giappone. Durante il periodo Edo (1600-1868), le tecnologie provenienti dal mondo esterno si riversarono nel paese, in particolare attraverso il commercio in corso con gli olandesi.

Le lanterne magiche, una delle prime forme di proiettore per diapositive, che utilizzava vetrini collocati davanti alle lampade a kerosene come fonte di luce, erano una forma di intrattenimento popolare diffusa in tutto il mondo nel XVIII secolo. In Giappone, diverse esibizioni di lanterne portatili (Furo) sono state utilizzate simultaneamente in modo da poter animare contemporaneamente una serie di personaggi e scene colorati manipolando le diapositive in vari modi e proiettandole su una parete in una stanza buia.

La complessità della messa in scena mediante le lanterne magiche, e i rischi connessi con l’uso di prodotti infiammabili, probabilmente furono la spinta a modificare il dispositivo già alla fine del XIX secolo, spingendo verso l’utilizzo di una tecnica più vicina al “teatro delle ombre” di tradizione cinese.

Questo consisteva nell’esposizione di burattini di carta che, girando sull’asta che li teneva, cambiavano posizione. I suoi vantaggi erano che poteva essere presentato da una sola persona, in qualsiasi spazio, senza rischi di incendio. Il processo divenne popolare, e venne chiamato effettivamente kamishibai, anche se con un’accezione dispregiativa. Il nome prese piede e questi spettacoli iniziarono ad essere presentati per la strada, mettendo in scena drammi popolari (alcuni scabrosi) in episodi. Era così popolare che c’erano aziende che affittavano i materiali ai cantastorie ambulanti, ma la crudezza delle storie provocava frequenti interventi di censura. Nel 1929, quando questi spettacoli furono banditi definitivamente, tre cantastorie ambulanti unirono le forze e inventarono un nuovo metodo, che chiamarono shin e-banashi (nuove storie illustrate), per eludere il divieto. Il processo consisteva in uno storytelling accompagnato da tavole illustrate che scorrevano all’interno di un piccolo palco di legno. Ecco il kamishibai come lo conosciamo oggi.

 

Fonte: AKI Associazione Kamishibai Italia, clicca qui. Ultima consultazione: 03/5/2020

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